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ACQUAVIVA PICENA – Il Duce fu davvero assassinato dai partigiani? L’esecuzione avvenne realmente dinanzi al cancello di “Villa Belmonte” a Giulino di Mezzegra? E perché anche Claretta Petacci subì la stessa sorte?
Tutte domande che sembravano possedere una risposta certa, ma che, a distanza di sessantaquattro anni riemergono e vengono riproposte da Alberto Bertotto, nell’appassionante libro-inchiesta “La morte di Mussolini. Una storia da riscrivere”, edito dalla casa editrice Pdc di Ascoli e San Benedetto.
Un’opera che l’autore ha presentato lo scorso 21 marzo ad Acquaviva Picena in un incontro organizzato dall’Associazione “Il volo della Fenice” presso la Sala Conferenze dell’Hotel Abbadetta, di fronte ad una nutrita ed interessata platea.
«E’ ora che gli italiani sappiano come sono andate realmente le cose», esordisce Bertotto: «Mussolini morì suicida e i partigiani, quel famigerato 28 aprile 1945, non fecero altro che giustiziare per finta due corpi già cadaveri».
Una tesi che il professore dimostrerebbe grazie a prove più o meno convincenti, sommate e ricollegate come in un mosaico nel corso degli ultimi decenni.
Si parte dalle testimonianza alquanto contraddittoria di Walter Audisio (alias colonnello Valerio), che, stando alla versione ufficiale, compì la fucilazione: «Prima di morire il Duce mi balbettò “Ma… signor Colonnello”». Circostanza impossibile secondo lo scrittore, dato che la vittima non avrebbe potuto conoscere il “grado” del proprio carnefice.
C’è poi la vicenda degli abiti del dittatore. «Il giaccone non presentava fori. Lo confessò anche Gaetano Alfreta, giornalista del Corriere, al quale però il direttore impedì di scrivere un pezzo a riguardo. I buchi tuttavia ricompaiono nelle mutande e maglia della salute, oltretutto macchiate di sangue. Possibile che Mussolini sia morto in desabillé davanti alla cancellata?».
Chi causò allora la morte del padre del fascismo? «Una capsula di cianuro, impiantata dentro un dente finto», sentenzia l’autore. «La ruppe nella casa dei De Maria, una volta rimasto solo. Trovato agonizzante dalla Petacci, questa cominciò ad urlare. Giuseppe Frangi, il partigiano di guarda accorso, non potè fare altro che sparargli ed eliminare Claretta, diventata una scomodissima testimone».
Secondo Bertotto infatti, i comunisti dovettero ad ogni costo inscenare l’epilogo di Giulino di Mezzegra, per non appannare considerevolmente l’immagine trionfante del partito: «Una messa in scena disordinata, visto che i fori fotografati sul muretto – alto 1 metro e 26 – erano posti ad appena 40 centimetri da terra. O Mussolini era un nano, o quell’esecuzione in realtà non ebbe mai luogo».
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