SAN BENEDETTO DEL TRONTO –  Riceviamo e pubblichiamo un testo di Marco D’Olimpio venuto fuori dal gruppo di Facebook costituito da Emidio Girolami dedicato alla nuova piazza di via Montebello, in quanto riflette e fa riflettere sul concetto primigenio di “piazza”
Caro Emidio,

nonostante il clima rigido, questa giornata è iniziata per me come tutte le altre, uscendo a piedi di buon ora per raggiungere l’edicola ed il forno. Oltre ai quotidiani appena usciti, al pane fresco, cioè caldo, ed al latte in bottiglia di vetro, quello che ottengo da queste
mie passeggiate mattutine è una mitigazione del mio essere a-sociale, un minimo sentirmi con-cittadino (che abuso di tratti nello scrivere parole composte, oggi!) grazie ai sorrisi ed ai buongiorno scambiati con persone sconosciute, ma che vivono nel mio stesso spazio pubblico.
Questo mi difende dalla bruttura del salire subito in auto, e, almeno oggi, rappresenta un’occasione per pensare ai messaggi letti appena prima di uscire in merito alla Piazza della Verdura.

Mi sembra che ci stia concentrando troppo su quello che succede sotto, e sugli aspetti tecnici legati all’esecuzione di eventuali lavori ed alla loro durata, trascurando quello che la Piazza della Verdura può rappresentare. Lasciami esordire constatando che il
problema delle macchine non si combatte nascondendole sottoterra, ma creando servizi e soprattutto condizioni sociali per le quali questa macchine non servano più, o servano meno. Questo mi sembra che sistemi in maniera rapida ma definitiva il sotto, e ci dia lo spunto per parlare del sopra.

Alcune accuse possono rappresentare un punto di orgoglio. Non so se così fu per Carlo Battisti, al quale l’accusa di Irredentismo impedì di entrare in ruolo all’Università di Vienna; resta il fatto che la sua biografia, oltre a questo merito, lo segnala come uno dei maggiori
esperti italiani di dialettologia, di latino volgare, di etrusco e di toponomastica, titoli sufficienti a far sì che sia lui a riportarci all’idea primigenia di piazza, spiegandoci che il vocabolo foris “indicava semplicemente il luogo esterno, usato nel latino arcaico delle Dodici Tavole per indicare lo spiazzo quadrato avanti il sepolcro, poi per designare lo spazio libero avanti la casa e successivamente anche una piazza quadrata all’interno di un abitato adoperata per assemblee o per mercati”. Da foris a forum, quindi alla piazza.

A me sembra che tutto sia nella foto “dechirichiana” cha funge da copertina al gruppo che hai creato su facebook, nella quale – oltre al tuo maglione rosso ed alla tua totemica figura – quello che emerge è la superiore bellezza dello spazio vuoto, dell’apertura e dell’assenza, nel confronto coi luoghi di “chiusura” che le case circostanti rappresentano (anche tralasciando l’obbrobrio architettonico che descrivono). Se ora è vero, come abbiamo visto che l’archetipo della piazza è rintracciabile nello spazio antistante il luogo di sepoltura, il fatto che ne diventi un coperchio (siano loculi o box quelli che nasconde), mi sembra tradirne il senso profondo.
Non giova il fatto che questo coperchio sia poi giustificato dall’alibi di opere architettoniche, ascrivibili alla generica e generalista categoria dell’”arredo urbano”, che a nulla giovano nella creazione di quel moto dinamico e vitale che fa sì che siano le persone a definire ed ordinare lo spazio. Le persone.
La costruzione di una piazza è forse una delle espressioni più alte di quel mistero rappresentato dall’avventura, dall’arte antica di edificare Città, non luoghi destinati al solo uso di abitazione e rimessaggio auto, ma nel quale trovino spazio gli ambienti per le
funzioni civiche e sociali. L’edificazione di una piazza può allora rappresentare l’incanto della creazione di un luogo in cui la vita si svolga. Fuggiamo allora dalla creazione di oggetti avulsi da qualsiasi funzione. L’agorà fu un’autentica invenzione urbanistica, che non trovò riscontro né nei centri del Vicino Oriente né in quelli micenei (dove tutto dipendeva dal re e non c’era bisogno di un luogo dove tenere l’assemblea, ma questo è altro e differente discorso).

Abbiamo a poche centinaia di metri la testimonianza di quella grande occasione mancata che è stata la ristrutturazione di piazza Nardone (si chiama ancora così?): una piazza nella quale si affacciano la Basilica e l’unico teatro restante in città, che avrebbe tutte le
caratteristiche per farsi Agorà, ridotta a parlare a se stessa in un patetico soliloquio.

La cura dello stesso male che ha reso le nostre piazze un semplice elemento della toponomastica, privandole del loro potere rappresentativo, può diventare una occasione, decisamente migliore della creazione di una cinquantina di posti auto privati, per il recupero di una parte della bellezza di questa città, spingendo al recupero del senso di identità e di appartenenza.
Vorrei che Piazza delle Verdura torni ad essere prima di ogni altra cosa, scena di vita collettiva, fin dalla sua ideazione.
Aspetto una nuova foto, simile a quella che hai pubblicato adesso, nella quale ti si possa vedere seduto tra altre persone; se così non sarà, sarà semplice trovarti al solito posto dietro la cassa della tua libreria

Buona giornata,
Marco