Spulciando tra i ricordi Carmine Rozzi mi ha fatto leggere una sua pluri-intervista che ho trovato molto bella tanto e interessante che ho deciso di ri-pubblicarla oggi in questo spazio nella ricorrenza del santo protettore dei… lavoratori della corda
SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Quanto è antico il mestiere di funaio? Chiederlo ad alcuni componenti di quel piccolo esercito di instancabili lavoratori che contribuì a far grande la marineria sambenedettese dotandola di cordami formidabili, è impresa ardua. I sei “ragazzi” scuotevano la testa. Per quanto ne sapevano loro è sempre esistito: «Almeno quanto la pesca», esclamavano in coro annuendo con la testa. Iniziavano a lavorare all’età di otto anni, alzandosi la mattina alle quattro per tornare a casa alle nove e se c’era ancora luce anche più tardi. Sei giorni su sette, per poche lire. Storie di sacrifici e miserie inaudite sorrette da una grande dignità. Filippo Liberati, il sessantottenne ex-presidente del Circolo “Mare Bunazz” si ricordava molto bene di quando, all’età di appena otto anni, incominciava a “votà la ròte”. Si alzava all’alba, anticipando spesso il canto del gallo e, con un panino sottobraccio, si recava sul letto del torrente Albula, che allora si chiamava affettuosamente “lù sentìre”, o presso il Campo dei Funai, a ovest di Via Colombo, dove lo stava già aspettando il mastro funaio Vico Pignotti, classe 1925, con la matassa di canapa, “lu nucchie”, ancorata intorno alla vita. Filippo salutava, si sedeva vicino a “lu bancò” mentre Vico stava attento ad infilare il capo della canapa negli appositi anelli o “recchiole” a cui si legavano le ciocche di canapa. A quel punto Filippo, impugnata la manovella, o come si diceva “lu fèrre”, dava il primo giro alla ruota che, a sua volta, metteva in moto i dischetti di legno scannellati, “le girelle”, le quali, girando vorticosamente attorcigliavano la canapa e la trasformavano in spaghi di varia grandezza, a volte addirittura in cordami e canapi da marina.
Vico, con il nocchio di canapa intorno alla taglia, iniziava a retrocedere lentamente e, con una pezza di feltro bagnata in mano, onde non creare attrito, trasmetteva alla canapa il movimento rotatorio indispensabile all’azione di attorcigliamento. Una volta arrivato in fondo al sentiero, legava lo spago finito intorno ad un palo, che veniva chiamato “lu père”. Realizzati tre fili li annodava al gancio di legno, “le crucètte”, quindi inseriva la formetta, poi avanzava e, con il movimento delle girelle, attorcigliava i tre fili che impugnava.
A questo punto si erano appena fatte le cinque del mattino e questo rito si sarebbe ripetuto fino a tarda sera e, se l’andatura del lavoro a cottimo lo permetteva, ci poteva anche stare una piccola pausa per il pranzo, naturalmente molto frugale e ingoiato in tutta fretta. «A volte – ricordava Antonio Consorti, classe 1912 – con una mano si girava la ruota e con l’altra si addentava il panino che, tra un boccone e l’altro, era riposto dentro la camicia, anche per non posarlo da qualche parte dove si sarebbe potuto riempire di polvere». Verso le otto di sera, o fino a che la luce lo permetteva, lo spago avvolto in precedenza con la naspa di legno, “la naspètte”, era depositato su “lu père”. «Poi – esclamava Camillo Massimi, classe 1936 – tutti ad immergerlo nell’acqua dei lavatoi pubblici del Paese Alto, di Piazza Battisti o dove ora sorge la Palazzina Azzurra, litigando spesso con le lavandaie alle quali ogni sera finivamo per contendere quei preziosissimi spazi d’acqua».
L’indomani si procedeva alla lisciatura dello spago “lu fèzzule”: «Fino a far diventare quei trentatré metri di spago, sempre la stessa lunghezza, così lucenti – ricordava Gino Falaschetti, classe 1933 – da sembrare quasi che fossero fatti di cera». Il giorno dopo, in quell’attività che spesso era una piccola impresa famigliare, madri, mogli o sorelle avrebbero, con l’aiuto di una naspa di legno, quelle che noi chiamavamo “naspètte”, avvolto lo spago nella classica matassina “la fèzze”, Che rappresentava la confezione standard, pronta per la consegna. «A dirla così sembra un lavoro duro – rifletteva Romolo Emiliani, classe 1912 – e lo era, ma posso assicurare che quello di noi “canapini”, lo era forse anche di più. Costretti com’eravamo a pettinare la canapa in cantine o scantinati bui e umidi, anche se per “solo” otto ore al giorno, con la polvere che ti riempiva i polmoni giorno dopo giorno e ti faceva ammalare, tanto che la tubercolosi era diventata per noi una causa di morte quasi naturale».
Liberati, Massimi, Pignotti, Consorti erano loro stessi o avevano lavorato come apprendisti per i cosiddetti funai di fino o “funarètte” che avevano la capacità di produrre il particolare tipo di spago con il quale le leggendarie “retare” (monumento all’imbocco di Via XX Settembre) avrebbero cucito le reti da pesca, mentre Falaschetti ha anche girato la ruota, decisamente molto più pesante, del funaio di “grosso” dal quale uscivano le corde delle navi. Eppure fino ad oggi, non c’è in tutta la città uno spiazzo, una piccola strada, una lapide a ricordo di queste attività. Solo un piccolo altare ignorato da tutti in una delle navate della Madonna della Marina dedicato alla figura del martire San Biagio con a sinistra una ruota e a destra un canapino. «Sorgerà un monumento in Piazza Garibaldi» prometteva il sindaco Giovanni Gaspari alla festa dello scorso anno. Quando, non è dato sapere.
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