CUPRA MARITTIMA – Protagonisti in vetrina, al terzo appuntamento stagionale della Galleria Marconi, sono quattro artisti marchigiani che, in diversa misura e forma, hanno animato lo spazio espositivo. Apre, ironicamente, la rassegna, l’opera “Ritratto di famiglia” di Rita Soccio, recanatese d’adozione. Di ispirazione neo-pop, l’artista si appropria del sostrato pubblicitario, di immagini consumate e digerite dalla massa “acquirente”, per realizzarne quella che oggi si definirebbe, in ambito televisivo, una soap opera. Nascono così Lindo e Stella, i cui volti sono i riconoscibili marchi di due prodotti commerciali di largo consumo (Mastro Lindo e Brodo Starr). Nati dalla reclame storica, essi entrano prepotentemente nella vita quotidiana, con gesti, pose e ambientazioni da tipica famiglia borghese. Sono citazioni che, in un burlesco scambio di ruoli, citano a loro volta, trapassando nella storia dell’arte. Lindo e Stella arrivano, difatti, a posare davanti alla fotocamera come novelli progenitori masoliniani.

Alla Soccio, a suo modo, fa eco, in quanto a riconoscibilità, l’opera pittorica di Daniele Duranti, che isola singoli frames di un medesimo film (Kill Bill, nello specifico) e ne amplifica l’impatto visivo, mediante una tecnica che emula i filtri di certi programmi di grafica digitale. I colori ne escono rafforzati, acidificati. L’impasto materico, unitamente al disegno elaborato dalla pellicola cinematografica, fluidifica ambiente e oggetti. Ne scaturisce un effetto videoclip che esalta, principalmente, le luci e le ombre di una metropoli quasi irreale, futuribile.

Il linguaggio espressivo di Roberto Cicchinè, a confronto, dimostra più sobrietà e rigore. Le sue immagini, rubate alla Natura, nulla mantengono della figuratività che da esse ci si aspetterebbe. Il “Dente di leone” o le “Ginestre”, scarnificate dal bianco e nero, rimandano allusivamente a certa pittura informale, al dripping pollockiano. E ricordano che la Natura può essere raffigurata in modo astratto quanto l’atomo (per definizione storica, la particella più piccola di materia) ed essere egualmente considerata vera e concreta.

Cosa che contrasta con l’installazione concepita da Nardi e Scopetta, tutta giocata sull’illusione di una realtà altra, sull’inganno delle percezioni fisiche. Gli autori maceratesi, puristi nel loro modo di vivere e produrre arte, assemblano materiali d’uso comune e di facile riperibilità: due cavalletti, un lungo asse, un’asta, una morsa, un sacco, una bottiglietta di plastica e del filo trasparente sono gli ingredienti essenziali per ottenere un’opera concettuale che destabilizza il pensiero su idee antinomiche, quali leggerezza-pesantezza, vuoto-pieno, fragile-solido. L’opera invita lo spettatore a ruotare intorno ad essa, ad avvicinarsi, per osservare più da vicino, e scoprire l’inganno dell’occhio. Vogliono, forse, Nardi e Scopetta denunciare un malcostume diffuso: quello di fidarsi, acriticamente, delle apparenze senza arrivare alla sostanza delle cose.