Francesco Andreasi, di Rivoli in provincia di Torino, non dimenticherà le vacanze natalizie del ’76, che trascorse nel suo appartamento di San Benedetto del Tronto, al terzo piano di un condominio di via Morosini. L’abitazione, chiusa da mesi, era diventata un deposito di armi delle Brigate Rosse. La polizia fermò il ventunenne Roberto Peci, figlio di un dipendente dell’impresa costruttrice dello stabile. Suo padre aveva, per ragioni di lavoro, una chiave dell’appartamento. Il figlio maggiore, Patrizio, ventitre anni, scomparve (Fabio Petrini, Giovani rivoluzionari, Livi, 1994).

Andai a manifestare contro l’attentato alla scorta di Moro e il suo sequestro, e avrei voluto fare molto di più. Ci fu un altro funerale, quello del fratello di Patrizio Peci, Roberto, ammazzato terribilmente per “punire” quel primo “pentito” (che era stato fra gli attentatori di Casalegno) e per soffocare così il crollo che intuivano imminente dentro di sé. Quel funerale era al bando. Per alcuni, era il fratello di un delatore, un infame. Per altri, era una questione di famiglia di terroristi e di disgraziati. In più, faceva paura farsi vedere lì, mettersi in lista come bersagli dei brigatisti. Andai a quel funerale, a San Benedetto del Tronto, con Marco Boato, Mimmo Pinto, ed Enrico Deaglio. C’erano altri dei nostri di un tempo. Ci andammo per essere vicini alla moglie di quel ragazzo ucciso, e per farci vedere. Non riesco a ricordare quali e quanti fra le autorità di allora e i maestri del pensiero di sempre abbiano trovato il tempo di passare di lì, quel giorno. Mi piacerebbe che ciascuno, ogni volta che di nuovo taglia il nastro del proprio monumento, ricordasse se disse qualcosa, e che cosa disse (Adriano Sofri, Piccola Posta, “Il Foglio”, 20 novembre 1997).

Ormai sono un’altra persona, che vive e fa cose diverse, che ha una famiglia, un figlio. È stata un scommessa, una delle tante. La mia contro le bierre (Silvana Mazzocchi, Vita da pentito. Intervista a Patrizio Peci, “La Domenica di Repubblica, 19 ottobre 2008).

La “pacifica” rivolta del dolore del “Rodi”, nel ’70, non era stata l’inizio della rivoluzione.
Se alla fine dei ’70 il contestato PCI (elezioni del 1976), come secondo partito italiano, sembrava avviarsi verso responsabilità di governo, i sogni di una rivoluzione pacifica o anche di una semplice riforma del “sistema” si andavano spegnendo al crescere della violenza.

Quegli anni portano, anche sulla stampa straniera, l’immagine di un’ “Italia a mano armata”.
Le cronache nere del terrorismo. Le cronache nere dei pensionanti di lusso del supercarcere di Marino: Cutolo, Agca, Calò (alla fine degli anni ’90, tra le proteste, arriverà anche Riina).
Dalla porta girevole di quel “grand hotel” passeranno i funzionari del SISDE che medieranno con “o’ professore” Raffele Cutolo per la liberazione di Ciro Cirillo. Il 27 aprile 1981 l’Assessore ai Lavori Pubblici della Campania è stato rapito dalle BR. Sul piatto della mediazione, probabilmente, le possibilità di affari che il terremoto dell’Irpinia (23 novembre 1980) aprirà con i suoi 50000 miliardi di stanziamenti. Poi, Pertini s’imporrà e il boss sarà trasferito all’Asinara.
Più tardi passerà per quella porta il turco Alì Agca che il 13 maggio 1981 ha esploso 2 colpi contro Papa Wojtyla.

Tra il 1980 e il 1984 la cadenza dei fatti di cronaca nera è implacabile. Il 20 febbraio del 1980 viene arrestato Patrizio Peci. Il 27 giugno il DC9 dell’Itavia (dell’anconetano Davanzali) precipita nel mare di Ustica. Il 2 agosto la strage di Bologna; le trame nere toccheranno anche le Marche. Nel 1988 il marchigiano Sandro Picciafuoco, poi assolto, verrà condannato all’ergastolo assieme agli estremisti neri Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Massimiliano Fachini. Più tardi, testimonierà nella vicenda della “Uno bianca”.

Il 17 marzo del 1981 viene scoperto l’elenco degli appartenenti alla P2. Il 10 giugno il sequestro del povero Roberto Peci che verrà trovato morto il 3 agosto a Roma, in una casa diroccata sull’Appia non troppo distante dall’Ippodromo di Capannelle.

Il 29 ottobre del 1980, un trafiletto del “Courier” racconta una nuova storia di opere d’arte trafugate. Dopo sei anni di trattative col governo svizzero, due Crivelli e un Ercole romano tornano a Ripatransone.
Ancora il piccolo giornale dell’Arizona, il 28 novembre del 1982 riferisce del tragico deragliamento in piena San Benedetto del Milano-Taranto che conterà 4 morti e 100 feriti. Sulla linea si stanno eseguendo dei lavori, ma si penserà a un attentato; un ingegnere e il suo assistente verranno arrestati.
Il 23 dicembre 1984 la strage del “Rapido 904” con i suoi 15 morti nella Grande Galleria dell’Appennino di un’altra San Benedetto, San Benedetto Val di Sambro; l’ultimo attentato dell’eversione nera. Di nuovo Natale, come in quel 1970 da cui siamo partiti.

Il nero sfuma e per la stampa straniera c’è la scoperta delle Marche come “nuova Toscana”, anzi di più, come la “quintessenza dell’Italia”.

Nelle Marche, “Toscana rozza”, Pasolini aveva forse visto l’essenza di quella “vera Italia” che il boom stava cancellando. La marginalità rispetto alle rotte del “grand tour” e poi del turismo, rispetto ai grandi percorsi dell’economia, l’avevano preservata.

Il 2 marzo del 1986 il “New York Times” titola: “Ascoli Quintessential Italy”. L’Italia in un luogo, il mito italiano per stranieri in concentrato. Le Marche diventano “plurali”, “città-regione”; diventano “cool”.

Alcuni di quei “figli del popolo” e “figli di papà” che dicevano di voler fare la rivoluzione oggi sono classe dirigente, in posizioni e livelli diversi; una classe dirigente sostanzialmente simile a quelle che volevano sostituire. Su tutti, anche sugli innocenti, pesa una responsabilità generazionale; la responsabilità di una ricostruzione di una memoria collettiva. Anche in una splendida giornata nel “Marcheshire”.