PESCARA – Ottaviano del Turco si è dimesso ieri giovedì 17 luglio con una lettera indirizzata al Presidente del Consiglio regionale Marino Rosselli ed una inviata a Walter Veltroni. «Avevo già detto in più occasioni – scrive Del Turco a Rosselli – che un’accusa così grave e particolarmente pesante non mi avrebbe lasciato altra scelta se non le dimissioni dall’incarico che ho ricevuto dal voto degli abruzzesi. Ciò mi consente di potermi difendere con tutte le mie buone ragioni senza trascinare l’istituto della Regione in una vertenza giudiziaria nella quale se ci sono responsabilità esse sono personali e non collettive…». Diciassette righe scritte prima dell’interrogatorio davanti ai pubblici ministeri nel carcere di Sulmona. Si avvale della facoltà di non rispondere, e fa solo dichiarazioni spontanee che si concludono nel giro di una decina di minuti.

Del Turco ha detto che nel 2001 il governo Berlusconi spezzò le gambe all’Abruzzo tagliando i fondi per la sanità. Scarica le colpe dello sfascio sulla precedente giunta Pace, e sostiene di aver ereditato una situazione catastrofica della sanità che però stava cercando di rimettere in sesto. E invita i magistrati – che ancora non hanno trovato traccia del denaro frutto delle tangenti pagate da Angelini – a verificare i movimenti di denaro nei suoi conti correnti da quando è presidente della Regione.

Nella giornata di giovedì 17u luglio Del Turco ha scritto anche un’altra lettera, indirizzata a Walter Veltroni: «Essendo membro della direzione del Partito Democratico e non volendo in nessun modo che la vicenda giudiziaria che mi riguarda abbia ricadute spiacevoli sull’immagine del partito, ti annuncio la mia decisione di autosospendermi».

All’ex presidente della Regione viene comunque negata la scarcerazione poiché per il procuratore Trifuoggi e i sostituti Belelli e Di Fluorio, e il gip Di FIne «l’estrema gravità dei fatti contestati a Del Turco, Quarta, Cesarone e Boschetti e la loro sistematica reiterazione nel tempo, denota un profilo delinquenziale non comune che lascia ritenere pressoché certa, indipendentemente da dimissioni dai rispettivi incarichi pubblici, la reiterazione dei medesimi reati per i quali si procede».