SAN BENEDETTO DEL TRONTO – «Ovunque sono stato, anche nei posti più sperduti del mondo, il primo pensiero è sempre andato alla mia San Benedetto»: l’eclettico Massimo Urbani non è persona da lesinare emozioni quando si parla della sua città perché «io, la mia pelle, le mie ossa e il mio sangue sono di San Benedetto» dice, anche se, ovviamente, come tutti gli amori, anche quello di Urbani verso la sua città natale è stato tormentato.
«Il 27 novembre 1974 sono andato via, forse insoddisfatto: ho studiato, mi sono laureato in Medicina, e ho poi girato il mondo per lavoro: ma ho scelto di fare il medico non per i soldi, ma per entrare in empatia con le persone» continua Urbani, che pure, ovviamente, è tornato a San Benedetto moltissime volte. E a leggere il suo curriculum si capisce quanto Urbani, che da ragazzo si è diplomato al Conservatorio e che fu tra i primi ad animare il centro cittadino esibendosi in concerti musicali proprio di fronte a quel Florian gestito dal padre Osvaldo, abbia iniziato allora una parabola che, proprio in questo periodo, verrebbe completata, con il ritorno stabile nella Riviera delle Palme, avvenuto la scorsa estate.
«Ho tanti ricordi anche di casi internazionali che, oramai, sono entrati a far parte della storia» spiega Urbani. Come per l’epidemia di ebola esplosa in Uganda nel 2000, per la quale il sambenedettese ha ottenuto un riconoscimento dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità quale coordinatore per il Gruppo di intervento rapido; oppure come coordinatore per il programma di emergenza in Rwanda, o responsabile di interventi italiani in Camerun, o in Somalia e in Algeria negli anni ’90: «Qui, nel luglio 1994, eseguii l’autopsia ai sette marinai italiani del mercantile “Lucina”, uccisi dagli estremisti islamici». Pagine di dolore, ma anche molte gioie: «Posso dire di aver attraversato il mondo in punta di piedi».
Ma adesso, cosa ha da dare un uomo dell’esperienza di Massimo Urbani alla sua San Benedetto? «Nella mia vita ho coronato quasi tutti i miei sogni: ce ne ho ancora uno, che è quello di diventare sindaco di questa città». Un sogno che viene motivato dal vedere come in questa città «non si sorride più. Persino in Corea del Nord, sottoposta ad uno dei regimi più duri del mondo, vedo che le persone hanno più serenità di noi, in famiglia, al lavoro, nella società».
Urbani vuole quindi lasciare un segno d’amore: «Non ho esperienza riguardo questa politica – afferma, anche se la sua area di riferimento è quella del Partito Democratico – ma credo che le mie attività diplomatiche potranno essere sicuramente utili alla città».
Come ad esempio con il progetto San Benedetto del Ponte: una manifestazione «di umanità e sviluppo che dia lustro alla nostra città, superando i vincoli del denaro e della politica» che si svolgerà il 20 e 21 settembre: «Potremmo chiamare una bambina della Corea del Nord e una della Corea del Sud, come simboli di pace e fratellanza oltre le divisioni degli adulti».
Altra idea sviluppata da Urbani è Floaryanà progetto nato dall’unione dei nomi della moglie (di origine iraniana) e della figlia, e che agirà come un Social Business Team (anche qui le iniziali fanno riferimento a San Benedetto) tra Europa e Asia, con la prospettiva di allargarsi agli altri continenti: «Ognuno di noi deve tornare a dare il proprio meglio – spiega – perché siamo bloccati da disposizioni, dalla volontà di distruggere più che di realizzare. Siamo una bella città ma non siamo più lu paese più bille de lu monne. Quasi non ci conosciamo più tra di noi, perché c’è molta perfidia, poca collaborazione, troppo individualismo».
Riuscirà Urbani a realizzare il suo ultimo sogno in una città «che oramai vive di ristoranti e abbigliamento e attività evasive» e che è totalmente diversa da quella che lui, nel 1974, lasciò?