ASCOLI PICENO – Sulla vicenda del mancato intervento del Papa alla cerimonia inaugurale dell’anno accademico all’Università “La Sapienza” di Roma a seguito delle annunciate contestazioni di docenti e studenti, abbiamo chiesto un parere anche al Presidente della Provincia di Ascoli Piceno Massimo Rossi.

Qual è la sua opinione complessiva sulla vicenda? Hanno sbagliato i 67 professori firmatari della lettera contro Ratzinger, o ha sbagliato il Papa, nell’espressione delle sue idee?
«Direi che ha sbagliato il Rettore, e con lui i membri del Senato accademico che hanno sostenuto la scelta di utilizzare la cerimonia di apertura dell’anno accademico, cioè la massima celebrazione del sapere universitario e della scienza umana, per invitare il Papa: molto meglio, e credo che nessuno avrebbe trovato da ridire, farlo in una diversa circostanza, come quelle in cui le Università si aprono ad autorevoli contributi intellettuali in positivo confronto con docenti e studenti».

Il Papa ha declinato l’invito per evitare contestazioni, e quindi non gli è stato impedito, formalmente, di parlare. Tuttavia nella lettera dei docenti si legge «in nome della laicità della scienza e della cultura e nel rispetto di questo nostro ateneo aperto a docenti e studenti di ogni credo e di ogni ideologia, auspichiamo che l’incongruo evento possa ancora essere annullato» e una frangia degli studenti ha esultato quando ha saputo che la visita era annullata. Cosa ne pensa del fatto che nel nome del pluralismo e della laicità si «auspichi» che una figura come il Papa non possa parlare all’Università?
«Sono convinto che l’auspicio non facesse riferimento alla possibilità di far intervenire il Papa all’università, ma al fatto che fosse stata scelta un’occasione impropria, in cui notoriamente non sono previsti contradditori, ma “parla uno solo”. Non va dimenticato che il discorso di inaugurazione dell’anno accademico è il discorso che deve rappresentare e tratteggiare l’indirizzo dell’università: è giusto che sia il Papa a pronunciarlo?»

Il rapporto controverso tra Vaticano e Stato italiano è, negli ultimi anni, di nuovo centro di discussioni e polemiche: da una parte le accuse di ingerenze ecclesiastiche nella vita politica nazionale; la Chiesa invece sottolinea il rischio del “laicismo”, quasi di una sorta di religione laica esasperata. Quale è la sua posizione? Trova che la Chiesa ecceda nell’uso del suo potere di sensibilizzazione, o che invece svolge in maniera corretta il proprio magistero?
«Io penso che l’Italia sia afflitta da una malattia dilagante: ogni contrasto, ogni legittima diversità di veduta viene immediatamente spettacolarizzata ad uso dei media: i toni salgono rapidamente, si perdono spesso di vista le reali dimensioni della materia del contendere, si evita accuratamente di approfondire i fatti e le ragioni in campo per brandire le proprie posizioni come una clava con cui aggredire chi ha opinioni diverse. Il tutto con sommo gaudio di una parte, purtroppo neppure minoritaria, dei cosiddetti “professionisti dell’informazione” che in questo fango sguazzano divinamente.
L’esasperazione dei conflitti fa male a tutti, impedisce alla coscienza sociale di crescere, scoraggia le persone dal partecipare alla vita pubblica. Una tendenza a cui purtroppo non si sottrae neppure la gerarchia ecclesiastica, seppure con toni apparentemente più pacati, come dimostra l’immediato appello alla mobilitazione dei fedeli per domenica in piazza San Pietro. Lo dico prima di tutto a noi, che abbiamo responsabilità pubbliche: cerchiamo di abbandonare le facili strumentalizzazioni, voliamo un po’ più alto e proviamo ad elaborare idee e proposte che siano di stimolo e di riflessione per la pubblica opinione.
Detto questo, comunque, va sottolineato, come ha sostenuto anche il direttore Ezio Mauro su “Repubblica”, che la Chiesa, pur avendo il pieno diritto di testimoniare la sua dottrina su qualsiasi materia, anche di competenza dello Stato, deve tener conto che le proprie prese di posizione sono destinate alla coscienza dei credenti e a chi riconosce ad essa un’autorità con cui confrontarsi, mentre le scelte politiche spettano ai laici, credenti e non credenti. Ho l’impressione invece che ultimamente nella Chiesa si faccia strada la convinzione secondo cui i non credenti non riescono a dare da soli un senso morale all’esistenza, perché solo la promessa riconosciuta dell’eternità dà un senso alla vita terrena. Ne deriva una riduzione di dignità dell’interlocutore laico, quasi una riserva superiore di Verità esterna al libero gioco democratico, una sorta di “obbligazione religiosa” a fondamento delle leggi e delle scelte di un libero Stato: e questo, a mio parere, non va».