SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Sempre stimolanti gli spunti di discussione e le riflessioni che ruotano intorno ai premi della Fondazione Libero Bizzarri, forse la migliore “macchina da cultura” nella nostra città. La rassegna del documentario che partirà il 22 settembre prevede il concorso “Made in Italy & Italy in Made: personaggi, fabbriche, oggetti del design italiano”. Durante la rassegna ci sarà anche un momento di riflessione sotto forma di un convegno sul design, l’innovazione e le imprese italiane fra locale e globale, promosso dalla Facoltà di Architettura dell’Università di Camerino.

E’ sotto gli occhi di tutti la crisi strisciante della creatività italiana, del “saper fare bene le cose”, della nostra importante scuola di design industriale. E’ una crisi che dipende da fattori esterni, non tanto da un improvviso rincitrullimento delle teste pensanti della nostra nazione quanto dalla pesante concorrenza subita dalle braccia e dalla forza lavoro del nostro paese, portata da modelli di sviluppo economico distanti anni luce dal nostro per quanto riguarda la tutela dei lavoratori, le condizioni di lavoro, le condizioni qualitative dei prodotti e della produzione.
E’ stata la molla che ha fatto scattare il fenomeno della delocalizzazione produttiva. Chiudere gli stabilimenti in Italia, produrre all’estero per portare poi i prodotti finiti – o da assemblare – nel Belpaese.

Negli ultimi anni è stata la tendenza chiave della crisi del Made in Italy. Una crisi forse soprattutto concettuale, ma nondimeno sociale. Gravi sono state e continuano a essere le ripercussioni sui livelli occupazionali, sulla sicurezza dei posti di lavoro e dei redditi di centinaia di migliaia di famiglie italiane. Proprio quegli operai che sembra quasi si ritenga non esistano più. Sbagliando.

Le riflessioni connesse alla rassegna della Fondazione Bizzarri partono proprio da qui: “Ha ancora senso parlare di Made in Italy?”. E ancora: “Il Design sarà capace di trasformare la crisi in nuove traiettorie di sviluppo e innovazione? ”. Di alcune conclusioni possibili per questi ragionamenti, si è avuto un assaggio durante la conferenza stampa di presentazione della rassegna. Presenti docenti universitari, assessori competenti nelle tematiche del lavoro e della formazione, intellettuali. Tutti d’accordo nel sostenere la necessità di sinergie fra istituzioni pubbliche, imprese, università e centri di ricerca. Per ridare forza al modello socio-economico della piccola industria italiana, affrontare la globalizzazione, rivalutare le eccellenze tuttora poco conosciute. Per reagire alla crisi, insomma.

Il Made in Italy si è inceppato; ma la delocalizzazione ha lasciato il posto all’internazionalizzazione.
«L’osservatorio regionale ci dice che nei settori calzaturieri, metalmeccanici e del mobile le aziende marchigiane cominciano a produrre all’estero e a vendere all’estero», ha spiegato l’assessore regionale all’Industria e all’Artigianato Gianni Giaccaglia. La delocalizzazione tout court nel lungo periodo non conviene più agli imprenditori; c’è sempre una nazione dove i salari sono più bassi e i vincoli sindacali meno rigidi; meglio rendere internazionali i propri prodotti, usando manodopera straniera e mantenendo in Italia i centri servizi, il know how, la ricerca e lo sviluppo.

«Per trasferire all’estero la cultura del nostro territorio occorre la vicinanza delle istituzioni italiane, che devono aiutare a sviluppare una continua ricerca e formazione», aggiunge Giaccaglia.
TUTTA TESTA NIENTE BRACCIA? Ripercussioni sull’occupazione in Italia; svilimento delle condizioni dei lavoratori subordinati e degli operai italiani, conquistate in anni di lotte sindacali; rischi sociali della precarizzazione continua del lavoro. Sono alcune delle conseguenze possibili dell’internazionalizzazione dell’industria italiana.

«Il know how e la ricerca rimangono in Italia, qui serve una ricerca continua, non ci sarà riduzione della manodopera», risponde Giaccaglia.
Eppure qualcosa non quadra. Fare ricerca e innovare non è cosa da tutti. E’ difficile andare a dire “innovati, formati, studia”, a un operaio appena licenziato da uno stabilimento delocalizzato, se magari lo sfortunato ha pure cinquanta anni e passa.
Cosa resta del design italiano se la forza lavoro non è in Italia? Come si innoveranno le ampie fasce sociali non specializzate, quelli che una volta si chiamavano proletari? Che fine farà il loro know how? Torneranno all’epoca preindustriale, ai campi? O emigreranno in Cina e in Vietnam anche loro? Che fine farà il modello socioeconomico dei piccoli distretti industriali italiani? Le filiere corte?