GROTTAMMARE – «Vivano per sempre il mare, la marina, i marinai, le navi d’Italia: questo è quanto scrissero i naufraghi del brigantino Italia, sull’isola Tristan da Cunha». Tullio Luciani inizia così il racconto di quei marinai grottammaresi scampati alla morte in Atlantico nel 1892. Una storia – assieme a molte altre basate sui racconti dei nostri marinai – raccontata nel libro Leggenda e coraggio della marineria Grottammarese, pubblicato nel 1998.
Come ha saputo di questa vicenda?
«Venne da me Franco Bruni, allora presidente del Circolo Velico Le Grotte. Mi disse: “Non sai cosa sono riuscito a trovare” e mi mostrò il libretto di un certo Agostino Lavarello stampato a Camogli nel 1930 col titolo I naufraghi di Tristan. Era un diario di bordo: la storia dei marinai del Brigantino Italia e del loro naufragio sull’Isola di Tristan da Cunha. Fra essi sei grottammaresi. Si rivelò più avvincente di un romanzo. Decidemmo di andare a Camogli, in Liguria, città di Lavarello. Lì c’è il Civico Museo Marinaro “Gio Bono Ferrari” che contiene documenti e reperti di questa storia. Vennero con noi gli amici Walter Assenti, Alessandro Ciarrocchi e Giuseppe Concetti».
Chi erano quei nostri sei marittimi?
«Fra i sedici uomini di equipaggio, i grottammaresi citati nel diario erano: i marinai Camillo Bruni (scritto Bruno), Antonio Marconi e Luigi Scartozzi (scritto Cartossi); il dispensiere Giuseppe Novelli; un ignoto “giovanotto” citato come N.N. e il mozzo Vincenzo Lauriana».
Dove sta l’isola Tristan da Cunha?
«È un’isola così piccola che non è segnata neanche sulle carte. Un puntino nell’immenso Oceano Atlantico che per loro fu la salvezza».
Ci racconta la storia?
«Partirono da Genova il 4 maggio 1891 per trasportare carbone in Inghilterra. Da lì ne caricarono dell’altro per l’India. Ci arrivarono dopo 106 giorni, poi ripartirono per la Birmania. La navigazione fu lunga ma tranquilla».
Poi cosa accadde?
«Ripassarono dal Capo di Buona Speranza. Il 28 settembre 1892 un principio di incendio mise in pericolo marinai e nave. Erano in pieno oceano. Cercarono di spegnere l’incendio, consci del fatto che abbandonando la nave sarebbero morti di stenti sulle scialuppe alla deriva. C’era chi gettava in mare bottiglie con appelli di aiuto, chi messaggi di addio… Finché ormai esausti e con la nave semidistrutta, prima di affondare avvistarono qualcosa poco più grande di uno scoglio».
Quando approdarono sull’isola?
«Ai primi di ottobre. Subito si inoltrarono verso l’interno per cercare del cibo. Trovarono abitanti che abitavano in case fatte di pietra vulcanica e vivevano allevando buoi e pecore. In tutto 47 persone, otto famiglie e tutti parenti».
Cosa fecero i nostri sull’isola, in attesa di tornare a casa?
«Chiesero aiuto a navi avvistate che non si fermavano. Ma in attesa di un passaggio per tornare in patria non rimasero con le mani in mano. Aiutarono gli isolani e insegnarono loro mestieri artigianali».
Che rapporto nacque con gli “indigeni”?
«Quando arrivò l’occasione per partire, tre marinai che si erano innamorati di tre “indigene” preferirono restare sull’isola formando altrettante famiglie. E il “peso” demografico che essi ebbero sulla popolazione è testimoniato dalla sagoma del brigantino Italia disegnata sulla bandiera di Tristan».
Gli altri?
«Tornarono in Italia dopo 22 mesi di assenza. Come per Camogli, anche per noi il mare non è solo turismo. È pure storia. Non a caso qualche decennio prima il garibaldino Nino Bixio ci aveva definiti “popolo di naviganti e di grandi marinai”».