Nell’estate del 1836 Leopardi e Ranieri dimoravano “verso l’aria più fresca di Capodimonte”. Nell’autunno i medici consigliarono al Leopardi di “ritornare, all’azione vivificante, e prodigiosamente diuretica , insieme dell’aria vesuviana. E così fu fatto. La villetta era a cavaliere di Torre del Greco e di Torre Annunziata”.
Tra l’autunno del 1836 e l’estate del 1837 scoppia un’epidemia di colera che fece una strage. A Napoli, come a Palermo, morirono ventimila persone.
Il Leopardi, “per l’odio ingenito che portava alla campagna”, a mezzo del cocchiere di Torre del Greco Palladoro fu ritrasferito a Napoli, dove abita o in via “Nuova di Santa Teresa o di Capodimonte” (secondo Vincenzo Ambrosio il Leopardi morì in una casa del rione Sanità, al n. 2 di Vico del Pero).
Tra l’aprile ed il maggio del 1837 i medici consigliarono il trasferimento a “LaTorre” anche se il Leopardi “opponeva la consueta repugnanza”. La casa distava da Napoli “otto o nove miglia”.
Continua il Ranieri. “Tutti i sughi di cipolla squilla, tutti i farmaci più diuretici, non facevano l’effetto di sola mezza giornata dell’aria della Torre” e all’ennesimo rifiuto del Leopardi di non muoversi, adducendo che il “il suo male era di nervi”, il dottor Postiglione sdegnato rispose “Signor conte, la diagnosi la fa il medico e non il malato. Le ho detto e ridetto più volte, che qui non entrano i nervi, ch’Ella dee recarsi alla Torre, …”. Il Leopardi si dibatteva “fra la paura del cholera, se partiva (era convinto che se si fosse spostato alla Torre, cambiando aria, avrebbe preso il contagio), e la paura dell’idrotorace, se restava”.
Infine, il dottor Postiglione riuscì a convincere il Leopardi a spostarsi, “S’era oramai già ai primi di giugno”. Il Leopardi continuava comunque a mercanteggiare i giorni della partenza, “io non so quante volte diedi posta al cocchiere, che aveva il soprannome di Banzica…”, ricorda il Ranieri.
Arrivò “il dì tredici, la malaugurata festa di sant’Antonio da Padova; giorno funesto, nel quale gli antropofagi del Cardinal Ruffo, salariati ed aiutati dagl’inglesi, sgozzarono qui i patriotti a migliaia”. Ranieri, insieme a Paolina, andarono a salutare il vecchio padre perchè il giorno seguente finalmente si sarebbero trasferiti.
Ecco la descrizione della morte del Leopardi: “S’era alle ventun’ora, come si diceva allora qui, cioè, alle ore cinque pomeridiane del dì quattordici. Danzica era da pezza giù con la vettura, e Leopardi, stato supplicato, insino dal dì innanzi, di mutare, per un giorno solo, le sue ore, e di far colezione prestino, acciochè non gli accadesse di desinar troppo tardi, appena appena allora si disponeva a desinare.
Dopo qualche cucchiaiata di quel suo denso brodo, si fermò; e chiese alla suora una abbondante (sic) limonea gelata, che qui chiamano granita. Paolina gliene fece recare una doppia. Ed egli, sorbitala con la consueta avidità onde sobì sempre simili bevande, volle poco di poi, ritentare la prova del brodo. Ma fu indarno!
Onde che noi, impensieriti, non della stranezza della granita in mezzo al brodo, che di altrettali ne faceva a dovizia, ma della prova ritentata invano, gli si sedette a canto amendue, e gli si veniva dicendo tutto ciò che poteva più confortarlo, quando rivoltosi a me – Non mi sento bene – mi disse. -Si potrebbe riavere il dottore? -.
La gente cadeva morta a migliaia, e non era il giorno da spedir messi. Mi convenne correr di persona con Danzica e lasciar la povera suora nelle più crudeli e palpitanti angosce. E togliendo l’instancabile Mannella di tavola, fummo di volo a casa. Leopardi se ne rallegrò: ma non così il Mannella, che, per non parere di sfidarlo, riconsigliato il già in vano consigliato latte d’asina (contro al quale in quell’ora suprema l’infermo si ribellò come di cosa inutile all’asma nervoso), mi chiamò in disparte, e mi avvertì, con dolorosa commozione, che mandassi per il prete”.
Il prete arrivò, “ma tardi … Mi resterebbe solo a narrare i concitati affanni e la ingente spesa che ci valse il salvare il cadavere dall’infando cimitero cholerico dove, grandissimi e piccolissimi, morti, o non, di cholera, erano tutti inesorabilmnete e confusamente gittati, con sopra un alto strato di calce viva, ed un lastricato di pietra vesuviana. Ma me ne taccio… perchè la enormità di quegli affanni e quelal spesa non può trovar facile fede in questi così diversi e così facili tempi. Composta la sacra spoglia in sacro luogo, ci ritraemmo alla paterna casina in Portici per qualche mese…”.
Il giorno seguente la morte, il 15 giugno, si legge nella nota n.10 “il cadavere fu accompagnato alla sepoltura da esso Ranieri che lo ripose con le sue mani nella chiesetta di San Vitale sulla via di Pozzuoli, dentro ad una tomba sotterranea presso la sacrestia. Dalla qual tomba indi a poco fu dal detto Ranieri in mia presenza fatta cavare la cassa e murata sotto al porticoche precede la chiesa, appiedi del muro dove a spese di lui fu innalzata la lapide con l’ornamento e con l’epigrafe dettata da Pietro Giordani”.
Fin qui il racconto del Ranieri.
Ed ecco i particolari sulla notizia curiosa della “sepoltura del Leopardi” ricordata da un grande napoletano, eroe risorgimentale, amico del Ranieri: Luigi Settembrini.
Nel 1875 il Settembrini scrive un libro autobiografico: “Ricordanze della mia vita”.
In occasione della storia del colera del 1836, inserisce una ricordanza.
Così si legge: “Fra tante dolorose novelle di mali pubblici, e di parenti e di amici tolti dalla peste, me ne venne una dolorosissima: che Giacomo Leopardi era morto in Napoli, non di colera, ma di quel fiero morbo che gli fece troppo amara e angosciosa la vita (1).
Alcuni anni dopo andai a visitarne la tomba nel villaggio di Fuorigrotta, accanto la porta la chiesetta di San Vitale. Il suo amico Antonio Ranieri, nella cui casa stette e morì, mi raccontava quanto egli ebbe a penare per trovare quel luogo dove riporre le reliquie di tanto uomo, per non farlo andare confuso fra tanti che in quei giorni morivano ed erano insaccati nel camposanto.
Nessun prete voleva ricerverlo in chiesa: il Ranieri parlò a parecchi parroci, e tutti no; gli fu indicato quello di San Vitale come uomo di manica larga e ghiotto di pesci. Ei tosto corse a la Pietra del Pesce, comperò triglie e calamai, e ne mandò un bel regalo al parroco, il quale lasciò prendere, e fece allogare il cadavere nel muro esteriore, accanto alla porta della chiesa. Così per pochi pesci Giacomo Leopardi ebbe sepoltura (2). Queste cose me le diceva il Ranieri, ed è bene che il mondo le sappia queste cose”.

Lillo Olivieri. Per una visione ancora più completa di queste informazioni www.olivierilillo.it
NOTE
(1) – Morì per un attacco d’asma a causa dell’idropisia che l’affliggeva (un edema generalizzato al tessuto sottocutaneo di tutto il corpo, chiamato anche anasarca).
(2) – L’attestato di un frate agostiniano in virtù del quale il cadavere potè ottenere sepoltura cristiana fece credere ad una conversione cristiana del Leopardi in punto di morte. Ma il Settembrini ci ha tramandato la storia esatta!