SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Questa vicenda è raccontata direttamente da Paolo Trento, figlio di Mario Trento, storico albergatore della Riviera delle Palme morto dopo 4 interventi chirurgici presso l’ospedale civile di San Benedetto nell’ottobre del 2005. Dopo la denuncia sporta dalla moglie dell’uomo, è stato aperto un processo arrivato alla seconda udienza. I legali della famiglia Trento sono Antonello Demarco e Roberta Alessandrini.

Il figlio Paolo ci ha offerto nonostante il dolore una sua testimonianza, una cronistoria dal risvolto umano fuori da ogni contesto giudiziario.

«Il 5 ottobre del 2005 mio padre entra nell’ospedale civile di San Benedetto per un semplice intervento di laparoscopia all’ernia. Il 10 ottobre lo dimettono e nei giorni a seguire comincia ad accusare dolori intestinali talmente forti che i medici optano per un nuovo ricovero. Fatti gli accertamenti, riscontrano una macchia nel ventre e con testuali parole una dottoressa mi dice: dobbiamo riaprire».

Chi era Mario Trento? Per molti è stato un uomo di 77 anni di origini abruzzesi che negli anni 60 approdò a San Benedetto con la speranza di costruire la sua fortuna lavorando nel turismo. Un pioniere di quel boom, amante della campagna e della natura. Per Paolo, suo figlio, è stato e continua ad essere un esempio di stabilità morale che raramente si incontra nella vita. Un uomo esigente ma onesto, lucido e vigile. Per Ida, sua moglie (morta 11 mesi dopo la sua scomparsa) era la dolcezza e la fedeltà. Per la figlia invece, Mario è un padre indimenticabile che lascia il segno.
«Arriva il secondo intervento “esplorativo”, così lo definiscono i medici. Operano e trattengono mio padre in rianimazione perché riscontrano del sangue nelle urine e lo strozzamento di una piccola parte di intestino. La diagnosi preoccupa e il suo ventre si gonfia a vista d’occhio. Devono intervenire in quella parte di intestino, da lì l’esigenza di riaprire per la terza volta per ripulire tutta la parte infettata».

Assistere a tutto questo per Paolo non è stato certo facile. Ci confessa che lo stato emotivo aveva preso il sopravvento e le speranze che in principio raccoglievano le forze della famiglia svanivano minuto dopo minuto.

«Da un lato si risolveva un problema molto grave, dall’altro il sangue nelle feci rimaneva persistente e i medici optano per il quarto intervento per comprendere ancora una volta le ragioni. Accompagno mio padre fino alla fine del corridoio della sala operatoria. Dico che ci saremmo visti dopo l’intervento e lui mi risponde per l’ultima volta: Speriamo».

«Vorrei che di mio padre si ricordi il caso umano e non quello giudiziario, non amo accusare nessuno e mai lo farò. Che si scriva di lui come di un uomo felice e sereno che ha creduto fino alla morte di poter ancora una volta riabbracciare i suoi cari nonostante il dolore. Si dica questo di mio padre con un sorriso sulle labbra e salveremo la sua dignità di uomo che ha sofferto».